Negli anni ’80 ero un adolescente abbastanza pieno di aspettative. Un periodo che, per quanto io sia massimamente ignorante su una enorme quantità di produzione musicale, posso dire fosse contraddistinto dall’elettronica. Tra amici si passava un sacco di tempo a rimpiangere la batteria tradizionale, sostituita in modo sempre più massiccio dall’uso di quella elettronica e anche delle tastiere, con le quali i gruppi musicali si ripromettevano di poter sostituire qualsiasi strumento.
C’erano come sempre eccezioni, modi e modi di utilizzare gli strumenti, e in questa zona grigia esisteva una varietà di sfumature, di personalizzazioni, di gusti. Dettagli che spostavano l’attenzione da una parte o dall’altra.
Se scrivo di quel periodo non è per una botta di nostalgia improvvisa o per dire “prima era meglio”, figuriamoci, ma perché una delle canzoni che andò – per una stagione o comunque per poco tempo: non credo abbia retto al passare degli anni – mi è tornata con insistenza in mente in questi giorni. La sono andata a cercare in quell’immenso archivio di materiale umano più o meno gradevole di nome YouTube, l’ho ascoltata e riascoltata e a distanza di decenni quel brano mi ha affiancato in una serie di ragionamenti.
Quest’anno ho avuto modo di conoscere abbastanza in profondità due diciannovenni, per i quali, con modalità più o meno esplicite, io sono – giustamente – un vecchio. Ciò non ha impedito a nessuno di noi di entrare in contatto, di darci il tempo di conoscerci e stabilire un legame. Non approfondisco i dettagli perché non mi dò il permesso di scrivere di fatti che non sono solo miei.
Le Olimpiadi hanno continuato a dirottarmi su questa età, diciannove anni, prendendo le sembianze di Benedetta Pilato e Mattia Furlani.
La prima sfiora una medaglia e poi viene redarguita duramente da una donna ex atleta, più vicina alla mia età che alla sua, per aver osato affermare con la voce spezzata da un pianto di sensazioni contrastanti, giurerei più vicine alla gioia che al dolore, che “questo è il più bel giorno della mia vita”.
L’altro, che all’aspetto è un riuscito incrocio tra Telespalla Bob e mio nipote, si prende un bronzo nel salto in lungo con una tranquillità che di sicuro mi è di insegnamento. Ci divide la passione calcistica, giacché lo vedo in foto nei giorni successivi con tute e maglie della Roma, ma è un dettaglio insignificante.
Sono bellissime queste persone di diciannove anni. Parlano, quasi sempre non attraverso le parole, di successi e di insuccessi, di insicurezze e di sogni, fanno sbagli clamorosi e compiono gesti quotidiani che hanno dell’eroico, senza che ciò venga visto o riconosciuto in alcun modo.
Gettati nella mischia in un mondo fatto in massima parte di adulti incapaci di spiccare un salto in avanti, di uscire dai propri schemi mentali. Gente spesso invecchiata male che mentre si accapiglia con degli sconosciuti sui social su qualsiasi argomento, esprimendo acidità di pensiero, empatia nessuna, unico obiettivo quello non dichiarato di scaricare frustrazioni e delusioni sulle spalle altrui, cataloga i diciannovenni come persone senza etica o morale, tutto il giorno attaccati ai telefonini come degli esseri lobotomizzati che osano rifiutare la tavola che i grandi hanno imbandito per loro.
Che tavola irrinunciabile, quella dei grandi. O dei vecchi. Con due guerre in corso che ci riguardano molto da vicino, se non altro per la quantità di investimenti che i nostri governi dedicano alle armi. Nessun adulto che conti qualcosa che riesca a sottrarsi alla logica del “ho il diritto di difendermi”, oppure “sono stato accerchiato”. La guerra accettata come una delle vicende del mondo dalla quale non ci si può sottrarre, come il respirare o andare in vacanza.
Il mondo del lavoro li accoglie imponendo loro ritmi e orari da automa e stipendi da “in fondo ti sto facendo un favore a farti lavorare”, si risente se il lavoro prodotto dai diciannovenni a volte risulta acerbo, come se dovessero essere già esperti come qualcuno che lavora da trent’anni. E loro, spesso nel silenzio delle loro stanze, più raramente su una pedana o in una piscina, che cercano un modo per arrivare in fondo alla loro giornata, ché in fondo l’orizzonte temporale che noi adulti responsabili gli abbiamo preparato non è proprio lontanissimo. Ho una grandissima, grandissima stima per queste persone che ho citato. Che riescono a tenermi in vita e suscitano tutta la mia curiosità. Che riescano a far somigliare le loro giornate con le aspirazioni, i progetti, i sogni che hanno tutto il diritto di immaginare.
La canzone degli anni ’80, molti avranno capito nel frattempo, si chiama “19”, l’autore un certo Paul Hardcastle di cui non so null’altro. Un brano tutto sommato da discoteca, ripetitivo, pieno di elettronica e di loop, altro che batteria tradizionale. Ma gli anni ’80 avevano questo di affascinante e spesso inaspettato. Anche un brano da discoteca poteva farti ragionare su qualcosa, emozionarti e provare vicinanza verso altre vite. Suscitare dubbi e domande.
Dal testo di “19” si evince ad esempio che l’età media dei combattenti nella seconda guerra mondiale era ventisei anni. Nella guerra del Vietnam l’età media si era abbassata a diciannove; che la durata del servizio in guerra era di dodici mesi ma, a differenza delle guerre combattute in precedenza, praticamente ogni giorno di quei trecentosessantacinque esponeva un soldato dall’età media di diciannove anni a uno scontro a fuoco con il nemico. Quante cose per una sola canzone da discoteca.